Rispetto ai Paesi limitrofi, la Svizzera dispone di un arsenale legale per la protezione contro i discorsi d'odio piuttosto debole, limitato ad alcuni standard di autoregolamentazione da parte degli operatori di telecomunicazioni e all'art. 261bis del Codice penale, che punisce la propaganda e gli insulti razzisti, nonché la negazione di un genocidio.
Sebbene abbia portato a centinaia di condanne nei 25 anni della sua esistenza, questa disposizione, introdotta in conformità con la Convenzione delle Nazioni Unite contro il razzismo (1966), presenta una serie di difetti, il più importante dei quali è che si applica solo alle dichiarazioni razziste fatte in pubblico.
Detto questo, la Svizzera è sotto osservazione dall'estero: membro del Consiglio d'Europa, è regolarmente monitorata dalla Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza. In diverse occasioni, questo organismo ha denunciato le carenze in questo settore: dai deboli poteri di intervento della Commissione federale contro il razzismo alla mancanza di finanziamenti per gli organi cantonali dedicati alla lotta contro il razzismo e all'assenza di misure legislative adeguate per limitare i discorsi di odio sui social network.
Quali sono le soluzioni? È una questione difficile, ma anche in questo caso la formazione è il primo passo, come ha concordato anche Bertil Cottier, Professore emerito USI e UNIL ed esperto di diritto dei media, dopo aver presentato una sintetica e illuminante disamina della normativa svizzera contro l’odio.